Non credo sia il miglior periodo per dare lezioni di caccia, Marco però ha insistito tanto ed io non so dir di no a questo mio bambino che ci è nato due volte, come a mia moglie e a me piace pensare quando talvolta riaffiora quel ricordo. Eccoci allora qui, nel famigerato “passo dei tordi”, immersi nell’oscurità di questo gelido solstizio d’inverno ad aspettare che si faccia giorno. Marco, infagottato nella sua giacca a vento, sciarpa al collo e copricapo in lana, attende in rispettoso silenzio; anche se il buio mi impedisce di vederlo ne indovino l’ansia profonda e la palpabile tensione: è un giorno importante per lui, da vivere da grande, da vivere alla grande.

La nostra posta è indubbiamente la migliore della zona: nasconde alla vista dei tordi ed ha un campo visivo che si spinge oltre la valle, verso il mare; per poterla occupare siamo qui dalle quattro del mattino. Nei pressi, in altri stalli meno fortunati sostano i ritardatari; di là giungono sussurri prolungati, interrotti da decisi richiami che quietano l’eccitazione dei cani. Al lume di un cerino guardo l’ora: le sei e quaranta, l’alba è ormai vicina. Ad oriente il chiarore si spande d’improvviso, sempre più intenso, attimo per attimo. Posso guardare mio figlio finalmente: la luce ancora tenue del mattino rivela lo stupore dei suoi occhi alla visione d’un paesaggio nuovo, terso e silenzioso, da lui mai immaginato fino ad ora. Mi sfiora il braccio bisbigliando: «Papà, papà, eccoli, li vedo!». Ombre ancora scure e indefinite frullano nel riverbero trafiggendo l’aria con il loro inconfondibile zirlo solitario; emergono dalla valle in controluce e zigzagando a volo radente si incanalano verso gli uliveti a monte. C’è ancora da aspettare per veder girandolare i tordi, ben distinti, ben focalizzati. Il momento è giunto, eccone uno che mi sembra a tiro: agguanto il sovrapposto, faccio slittare la leva dell’otturatore e inserisco due cartucce. Lo scatto del sistema di chiusura percuote il silenzio come schiocco di frusta. Il tordo che forse ha visto o sentito vira al vento, rallenta un po’ il suo volo, poi si lancia come un sasso verso il caliginoso canalone alle nostre spalle. Mi volto: è troppo veloce, rinuncio a far fuoco.
«Con te faremo i conti un altro giorno! Ecco l’altro: vieni bello, sono qui, ti aspetto…»
«Papà, parli con i tordi?»
«Beh, qualche volta…»
«E ti sentono? Ti capiscono?» insiste Marco con un sorriso incredulo.
«Mah, a volte sì, a volte no…» rispondo imbarazzato, ben consapevole della bizzarria della risposta. (Ma è proprio vero: quasi inconsciamente i cacciatori bisbigliano messaggi a fior di labbra all’indirizzo della preda, con l’assurda certezza di poterla plagiare col pensiero). Nell’aria gelata il tordo sfarfalla intirizzito senza fretta, rallenta, si attarda in continui saliscendi, quasi a voler rinviare il suo destino. Ora è sulla mia verticale: lancio un’occhiata rapida a mio figlio che naso insù segue la lezione; sollevo l’arma, miro, calcolo l’anticipo, faccio partire il colpo. Il fragore della fucilata si disperde nel costone scuro; un furioso abbaiare di cani concorre ad infrangere il silenzio, i campanacci di uno sgomento gregge vibrano in lontananza. Il tordo si blocca per un attimo poi inizia a volteggiare attorno ad un cerchio immaginario, altalenando come piccolo aquilone. Approssimandosi al suolo il lento mulinello si interrompe ed il volatile precipita con un tonfo secco sul ceppo di un vecchio ulivo, scivolando a terra. Chiare nuvole di piume si disperdono nell’aria, trasportate da un soffio gelido di vento.
«Bel colpo! Lo dico sempre ai miei compagni di scuola: sei il più bravo cacciatore che io conosca!»
Mi muovo con destrezza: il tordo è ferito a colpo d’ala – come si dice in gergo –; corro quindi ad afferrarlo prima che si dilegui all’interno dei cespugli, con Marco che mi corre dietro. Lo scorgiamo ancora là dov’è caduto: un’ala è aperta a ventaglio, il capo proteso verso l’alto è appoggiato alla ruvida scorza dell’albero che ha frenato il suo precipitare. Lo raccolgo: l’ala lacerata si ritira quasi a proteggere la ferita e una stilla di rosso si mescola al piumaggio; una zampetta penzola semi staccata dal corpo e le unghie dell’altra si aggrappano debolmente alle mie dita già imbrattate di sangue. Con aria soddisfatta osservo mio figlio che ha seguito anche queste ultime fasi della cattura e ne aspetto l’entusiastico consenso: al contrario, in modo inaspettato e con sorpresa, noto un qualcosa di triste nel suo sguardo, quasi d’infelicità improvvisa, come succede ai grandi, quando son colti da pensieri grevi. Mi viene da pensare che il cambiamento d’umore repentino sia colpa di quelle due minuscole capocchie color carbone che fissano con rassegnazione il nulla. Come una calamita, la fissità degli occhi languidi del tordo attrae anche me, causandomi uno sconcerto indefinibile che mal si accorda con il cacciatore. Che mi succede? Quello sguardo assente e distaccato mi pare d’averlo già incrociato in altro tempo, in altro luogo…

Basta talvolta un niente perché certi ricordi ritrovino la strada del ritorno, riemergendo inattesi da un passato creduto perso per sempre. Come in un disordinato trailer di film rivedo Marco disteso su di un letto d’ospedale e poi, a ritroso, mi ritrovo nell’obliqua luce malinconica d’una fuggente sera di fine estate: «Figlio mio!» grido inginocchiato sull’asfalto scuotendo disperato quel bimbo con le braccia abbandonate lungo i fianchi e con lo sguardo sperduto, lontano chissà dove. Sento le urla strazianti di mia moglie, sento voci:
«Cos’è stato?»
«Com’è successo?»
«L’ha investito uno con la moto, maradèttu! Currìa cumenti un maccu
«È scappato… e chi lo trova più?»
«È vostro figlio? Povero bambino!»
«Lo lasci disteso, non lo tocchi. Copritelo, piuttosto!»
Devo coprirlo? Ma fa caldo; o forse freddo, non capisco, non mi rendo conto…
«Arriva l’ambulanza!»
Mi ricordo di un Dio dimenticato:
«Padre nostro, aiutaci!».
Il viaggio non finisce mai.
«Gli parli, cerchi di tenerlo sveglio.»
«Marco, di’ qualcosa, rispondimi… Io, chi sono?»
Lui mi guarda con fatica: «Nonna!».
«Non mi riconosce… Non ce la fa, non ce la fa, ci sta morendo!»
Le sequenze si alternano: ascolto senza capire termini medici mai sentiti o letti distrattamente sui giornali. Trauma cranico. Radiografia. TAC. Ematomi diffusi nel cervello. Sento uno “Speriamo…” appena mormorato da chi dovrà eseguire l’intervento. Come sopportare tutto questo? Come accettare questo possibile improvviso addio; come sopravvivere alla perdita di un figlio? Lo trasportano in sala operatoria già anestetizzato, la piccola testa completamente rasa, gli occhi semichiusi, assenti: un uccellino implume. Un bacio, forse l’ultimo, l’attesa. Siamo soltanto noi, mia moglie ed io nelle sei ore d’apprensione e di preghiera.
«Vedrai, Dio ci darà ascolto… Passerà l’uragano e in casa nostra tornerà il sereno…»

Eccolo qui il mio piccolo cacciatore: niente è accaduto, tutto è dimenticato. Tutto dimenticato, se… se all’alba di quest’oggi non fosse sopraggiunto un banale, inverosimile accidente: un tordo, un qualsiasi tordo, un tordo di quei tanti che ho razziato nella mia lunga carriera venatoria è piombato fulmineo giù dal cielo, con l’intento di guastarci la giornata. Anche se lì per lì mi ostino a rifiutarne il nesso, lo sguardo sperduto di quest’uccellino agonizzante si sovrappone a quello che mi annientò nel lontano crepuscolo di anni fa. Non posso crederci, che accostamento idiota! Quello era mio figlio, anzi, è mio figlio; è qui, è accanto a me: che c’entra Marco con questo piccolo animale privo di pensiero che muore non sapendo di vivere? D’altronde, ragioniamo: sono o non sono un cacciatore? L’uomo, da che esiste, si dedica alla caccia per procurarsi il cibo, per sopravvivere, per scaricare le tensioni del viver quotidiano, per preservare l’ambiente (pensa un po’!); noi cacciatori siamo Ambientalisti. La caccia quindi aiuta, è un’arte nobile… No? È questa la nostra logica naturale, appunto. Eppure… Eppure mi sento pervadere da una sorta di dolcezza, di pietà. Con stupore, nell’osservare quest’essere nel suo ultimo attimo di vita, mi ritrovo improvvisamente lontano dalle norme dell’arte venatoria codificate dal tempo e che da questo momento non mi sembrano più tanto naturali.
La voce di Marco mi scuote dai pensieri. Cerco i suoi occhi che ora guardano pensosi verso il cielo, per celare forse un turbamento. Pensa per caso che provi disappunto? Crede forse che io sia insoddisfatto del suo temperamento scarsamente spietato… Così poco guerresco? Ne ascolto il parlare roco, spoglio della normale naturalezza: «Lasciamolo andar via, papà! Che male avrà mai fatto? È stanco, ferito, avrà anche freddo… Lasciamolo volare in pace!». Ma la piccola preda ha cessato definitivamente i suoi sussulti. Rimorso. Tristezza. Che senso ha, ora mi chiedo, la strage dissennata che sta per compiersi qui intorno? È ben strano il cuore degli uomini: accetta ormai con abitudinaria assuefazione e indifferenza le tragedie e gli sconvolgimenti del mondo d’oggi e all’improvviso, a volte, si intenerisce per cose tanto lontane dalle vicende umane.
«Vorrei tornare a casa» mormora Marco con un filo di voce.
«Va bene: torniamo a casa.»
Adagiato in un incavo quell’essere senza vita ci allontaniamo mentre nel livido fondale altri nulla di piume volano verso un destino già scritto, nel disordinato frastuono di spari, grida e guaiti di cani.
«Papà, a caccia non verrò più: non fa per me!»
Eh sì, figlio mio! Da oggi la penso come te. La lezione è finita.

Una storia (quasi) moderna.