Ho parcheggiato l’autovettura qui, nel tratto in cui è stato ricostruito il ponticello del “Rio Gabaru”, nella nuova strada che a giorni sarà inaugurata e che collegherà la città al mare. La curiosità è stata più grande della promessa che avevo fatto a me stesso di non rivedere più quei luoghi che, ormai sono vent’anni, hanno segnato pesantemente la mia vita. Appoggiato al parapetto del nuovo ponticello, provo a ricostruire mentalmente la località in cui avevo vissuto, per breve tempo, da piccolo sfollato di dodici anni. È tutto cambiato, a malapena riconosco la zona: l’antico aspetto di allora, con le varie tonalità del verde dei frutteti e dello scuro dei campi arati e ben assolcati, ha lasciato il posto alla nuova strada che con il suo colore nerastro d’asfalto recente sembra quasi marcare a lutto la scomparsa di un tempo finito. La casa di “tiu” Badore Simula non esiste più. Il corso d’acqua del rio è stato deviato. Il vecchio frutteto nel quale passavo le giornate di felice e inconsapevole fanciullezza con Maria, è stato sostituito dal materiale di riporto rimasto inutilizzato dopo la costruzione della strada. No, proprio non mi ci ritrovo più. Accendo una sigaretta e scruto il fumo azzurrino che nella quiete di questo pomeriggio si leva verso le nuvole con i miei pensieri, i ricordi, i rimpianti…

Nel maggio del 1943 mio padre, ormai fuori età per il richiamo alle armi, aveva deciso che mia madre ed io dovessimo lasciare la città, mentre lui sarebbe rimasto a custodire la casa ed avrebbe continuato il suo lavoro di rappresentante, non ricordo di cosa. Mamma ed io saremmo andati da tiu Badore, nella sua campagna di “Rodda cuadda” (tradotto dal dialetto: Ruota nascosta, penso), in prossimità della chiesetta del Latte Dolce, nell’attesa che la ferocia della mente umana così ben rappresentata da quella guerra si placasse. In città si raccontavano cose strane in proposito… Cose terribili!

Tiu Badore era un ittirese bassotto e robusto, sanguigno, molto taciturno e religiosissimo. Sua moglie, “zia” Vincenza – stesso luogo di provenienza del marito – donna minuta, triste, e con ragione, passava le sue mattine a sbrigare i mestieri di casa. La sera la trascorreva “rosariando” a bassa voce e sferruzzando a maglia. Preparava ininterrottamente calze di lana pesante, da spedire al figlio Agostino – soldato di fanteria chissà dove – sempre che lei n’avesse saputo le regole d’invio e l’indirizzo. Le calze dovevano essere tassativamente bianche, da confondersi con la neve qualora Agostino fosse stato dislocato sul fronte russo. Tonino, il secondogenito della famiglia, aiutava il padre nel lavoro dei campi e della mungitura. Era stato rifiutato all’arruolamento perché: «Guastu ‘e conca, grascias a Deiu!» diceva zia Vincenza, quasi a ringraziare il Cielo che gliel’aveva dato “unu pagu dulche”, squilibrato insomma, risparmiandole il secondo gran dolore di vedersi portar via un altro figlio. Infine, c’era Maria, la piccolina di casa Simula, undici anni, con gli occhi verdi che facevano contrasto con i capelli scurissimi e la carnagione che sfumava al miele dorato. Di lei mi ero innamorato al primo sguardo, di quell’acerbo languoroso amore d’adolescente che si ricorda sempre quando ci s’immerge nella dolce e tenera nostalgia del tempo che fu. Quel periodo seppur breve, trascorso a giocare e correre per il podere in compagnia di Maria, resta il più bel momento della mia vita. Il presente era tutto per noi due, il presente su cui i “grandi” non amavano intrattenersi, come sul futuro del resto, incentrando le loro chiacchiere serali sul passato, unico termine di raffronto a quell’oggi, nell’addomesticato rimpianto dell’inverosimile felicità vissuta durante i “fasti” dell’Italia fascista, ormai prossima alla fine.

La domenica mattina si andava a messa a “Santu Linardhu ‘e Bosue” come, all’antica, tiu Badore chiamava la chiesetta del Latte Dolce. Entrare in quel piccolo tempio per me era motivo d’angoscia mista a curiosità. Il luogo era buio e angusto. In fondo, dietro l’altare in pietra, illuminato dalla fiammella tremolante di un cero era sistemato il quadro – che si diceva e si dice miracoloso – raffigurante la Vergine che allatta il Figlioletto, con Santa Lucia e Santa Chiara che Le tengono compagnia. Ciò che però più m’impressionava era quella lunga fila di ex voto, come in seguito seppi si chiamano, appesi all’interno della cappella lungo le pareti laterali. Si trattava di cuori, gambe, braccia di gesso o d’argento, dalle più svariate forme e dimensioni… E poi i dipinti “naïves”, incorniciati alla meglio, che rappresentavano momenti tragici di vita dai quali il donatore si salvava con l’intercessione della Madonna del Latte Dolce, sempre presente ed effigiata nell’attimo culminante del pericolo. Un dipinto, in particolar modo, attirava il mio interesse: riproduceva una barca in balìa della tempesta con parecchi marinai a bordo i quali, raccontava la didascalia, erano tutti morti annegati tranne uno, il miracolato appunto, che offriva l’ex voto di ringraziamento. Un giorno, assillato da un dubbio avevo chiesto a mia madre: «Mamma, chi s’è salvato, quali meriti avrà avuto? E i poveretti che sono morti, che male potevano aver fatto tanto da non essere degni di un miracolo?». Dall’espressione impacciata di mia madre compresi d’aver fatto un’osservazione non adeguata alla mia età. «Capirai tutto questo quando sarai più grande!» tagliò corto lei, e non avemmo più l’opportunità di approfondire l’argomento, né io d’insistere.

Un giorno… Il giorno che avrebbe cambiato la mia vita, volgeva ormai alla fine: era quasi notte ed io mi attardavo nel giardino degli aranci, solo e annoiato. Maria era rimasta in casa a letto con una febbre d’influenza. Nell’ombra della sera inoltrata mi era parso di scorgere un qualcosa che luccicava per terra a pochi passi da me. Tutti eravamo avvertiti, soprattutto i più piccoli: niente di non individuabile doveva essere raccolto. Così, diedi un calcio all’oggetto per allontanarlo da me. Ricordo solamente un bagliore rossastro ed un urto fortissimo che mi proiettò chissà dove; poi il risveglio all’ospedale, con mia madre che piangeva accarezzandomi i capelli e mio padre in fondo, all’estremità del letto, che mi osservava pallido, con un sorriso tirato stampato sul viso. Mi raccontarono che ero rimasto in stato d’incoscienza per diversi giorni ma ora, fortunatamente, la paura più grossa era passata. Avevo dolori dappertutto, non riuscivo a muovere le gambe, in particolare quella destra. Ne scoprii il motivo da solo, qualche giorno dopo, allorquando mi accorsi che la gamba non c’era più: i miei non avevano avuto il coraggio d’informarmene. Non vorrei richiamare alla memoria la reazione ed il senso di disperazione che mi colse in quel momento: ancor oggi è duro ricordarlo, non me la sento.

Fui dimesso dall’ospedale due mesi dopo. Avevamo lasciato la campagna di tiu Badore, eravamo rientrati a casa ed io mi ero rintanato in camera mia, inondato d’infelicità. Non volevo veder nessuno, niente e nessuno poteva consolarmi, nemmeno mio padre e mia madre che si adoperavano nel tentativo di ridarmi almeno un minimo di serenità. Maria, il mio amore bambino, insieme alla madre era venuta a trovarmi tre o quattro volte. Non parlava mai, mi guardava e piangeva di continuo. Dopo l’ultima visita, quella di Natale mi pare, non l’avrei più rivista.

Una mattina, a circa sei mesi dalla disgrazia, dopo tante insistenze da parte loro, i miei mi accompagnarono alla chiesetta del Latte Dolce; non avevo alcuna motivazione per dover rendere quella visita e in ogni modo ci andai solamente per esaudire la loro ostinazione, giacché a me poco importava: e così, vidi e compresi. Fra gli ex voto, una piccola gamba in argento, la più luccicante essendo la più recente, era appesa nella parete a sinistra. «Questa…» mi disse mia madre fra il pianto ed il sorriso: «…questo è il segno del tuo ringraziamento alla Madonna per la gamba che ti ha salvato, ‘che non stava tanto bene neanche quella». «Lo so, mamma, io non sono ancora diventato grande, ma non capirò mai!» le risposi singhiozzando, quasi a riprendere un discorso interrotto qualche tempo prima. Non capivo perché la caricatura della mia gamba superstite doveva stare appesa lassù: e l’altra che non avevo più, perché la Madonna l’aveva portata via? Che male avevo io fatto per meritarlo? Non c’era più interesse né voglia di riprendere il discorso della barca con tutti quegli annegati ed un solo superstite raccomandato… Da chi?

All’inizio del nuovo anno scolastico mi ero ritrovato con compagni diversi. Mi trascinavo con la stampella, ma nessuno fece o volle notare la mia menomazione. Uno soltanto, una mattina mi chiese a bruciapelo ma senza malizia:
«Che ne hai fatto della gamba?»
«L’ho regalata a nostra Signora del Latte Dolce.»
«E perché?» incalzò lui.
«Perché… le serviva… per darla ad un altro bambino che di gambe non ne aveva niente: io lo so, meglio averne una che niente.»
Non so da dove avevo tirato fuori quella risposta, ma mi piacque replicare così, perché… Se fosse stato realmente così? E se la Madonna avesse scelto di sacrificarmi un arto in cambio della vita, che seppur non del tutto felice merita sempre d’esser vissuta? E se quel giorno fossi stato con Maria ed al mio posto la disgrazia fosse capitata a lei, l’avrei potuto accettare? Mai e poi mai! Avrei preferito morire pur di non vederla nelle mie stesse condizioni. Come vedi, mi ero detto in seguito dopo aver ben riflettuto, ogni casualità dell’esistenza anche la più imperscrutabile ha una sua logica compensativa e con la buona volontà tutto s’aggiusta e si riequilibra, bene o male…
A fatica il passato è riemerso da quel niente che di allora è rimasto. Se non fossero totalmente cambiati gli spazi, come tristemente rilevo, io penso che i ricordi sarebbero stati più leggeri e sfumati. Se tutto fosse rimasto immutato nel tempo, il verde bisbigliare degli alberi, il vocalizzo dolce dei cardellini e il gorgoglio del ruscello, chissà, forse avrebbero attenuato la pena che mi ha nuovamente pervaso. Peccato. Risalgo sulla Fiat 600 a comandi manuali, fatta apposta per chi ha il mio problema e mi avvio verso casa dove vivo con mia madre, una vecchietta ormai che nonostante il sorriso porta sempre impressi sul volto i segni della disillusione. Mio padre è mancato qualche anno fa. L’aveva preceduto da diversi anni tiu Badore, che non aveva fatto in tempo a rivedere il figlio Agostino, rientrato a fine guerra dalla prigionia in Germania. So che Maria si è sposata ed è madre serena di due bambini. Io non ho alcun’intenzione di prender moglie; con le donne, non so, questo mio problema mi ha sempre frenato e intimidito, e poi oggigiorno le donne sono più evolute ed io sono rimasto un po’… involuto. Sono diventato molto religioso, non sono adatto per la modernità: siamo negli anni sessanta ormai, in pieno boom economico si dice. Si potrebbe sostenere che sono un rassegnato? Non direi: la mia è una vita qualunque e tira avanti senza alcun rilievo; una vita che va, come si taglia corto quando si vuol essere lasciati in pace. Da un po’ di tempo cammino con un arto artificiale che mi fa zoppicare con meno evidenza. Percepisco una pensione d’invalidità e lavoro come telefonista all’Ospedale Civile, che è tutto dire. Vedo tante di quelle disgrazie e malattie… Meglio non parlarne! Bene o male, ringraziando nostra Signora del Latte Dolce, la vita continua…