…e signor Proto, signora Baingia, Fra’ Cesco: che fine avranno fatto? E di te Agostina, occhi d’oliva acerba, che ne sarà di te? Chissà come e perché certi ricordi ritornano improvvisi, incredibilmente inattesi. È proprio vero: il tempo ha inventato il passato per accumulare nella nostra mente momenti perduti, pensieri e turbamenti che alla loro ricomparsa, riportandoci indietro negli anni ci inteneriscono, ci commuovono, alle volte invogliano al sorriso… come le mie inconsistenti vicende amorose d’adolescente, ad esempio. Nei ricordi c’è la nostalgia per i giorni che furono e la consolazione d’averli trascorsi perché la vita, per quanto dura sia, merita d’esser vissuta. È un luogo comune, certo; ma c’è stato chi ha avuto la sfortuna di non conoscere futuro, ed il breve presente in questo nostro mondo non gli ha neanche concesso di misurarsi con i ricordi del passato; così l’amico Umberto poverino, scomparso ch’era ancora giovanissimo. Lo so, lo so che tale nota triste non ha niente a che vedere con la lontana storia che mi è tornata in mente; con la lieve vicenda nella quale Umberto, ragazzino inconsapevole del suo infelice destino, fu coinvolto anche se marginalmente… ma non troppo. Io sono un fortunato perché posso ricordare e raccontare, anche di Umberto, facendolo rivivere seppur nella memoria, ancorché per un momento. Bando però alle tristezze e ricordiamoci di com’eravamo Agostina cara, mio primo turbamento, mio primo amore…

Agostina era la donna di servizio, la ziracca di signor Proto, noto “Lu murinaggiu” – arricchitosi al mercato nero in tempo di guerra – uomo secco e allampanato, sempre accigliato, con casa e frantoio d’olive fra San Donato e San Sisto. Là vicino abitava la mia famiglia, che non poteva avere domestiche essendo mio padre manovale e povero al contrario di signor Proto, che contava soldi fra l’invidia di tutto il vicinato, famiglia mia compresa. L’innamoramento per Agostina era frutto dei miei dodici anni appena compiuti, età nella quale niente si sa d’amore; ma l’amore non ha età, come si dice, e Agostina mi piaceva assai. La mia memoria velata dal tempo serba il ricordo d’una ragazza dai capelli corvini, con gli occhi verdi ed un viso rosa-brunito di sana diciottenne che ignorava medici e medicine. Era anche bella? Forse, oggi non so dire. So che la spiavo tutto il giorno affacciato alla finestra di casa e appena la vedevo dirigersi verso la vasca, nel cortile dei padroni, rotolavo giù dalle scale per andare a chiacchierare con lei; in verità lo scopo era quello di guardarle le gambe quando si chinava per prendere i panni da lavare: beata, innocente ingenuità! Ero certo che Agostina avesse consapevolezza di questo mio malizioso interesse poiché quando arrivavo in sua presenza, per farmi piacere… penso, lei intonava una canzone, sempre la stessa, fissandomi con un risolino canzonatorio mentre io mi abbacinavo avvolto d’adolescente passione: «Vieniii, c’è una strada nel boscoo, il suo nome conoscoo, vuoi conoscerlo tuuu…». Finiti di stendere i panni, Agostina mi si avvicinava per discorrere e scherzare, e da quel momento, repentino e senza alcun motivo apparente – ma il motivo c’era, eccome! – il cuore mi pulsava da spaccarmi i timpani ed il respiro mi si accorciava come quello d’un merluzzo boccheggiante all’aria. Del mulino ero di casa, a tal punto che signora Baingia, grassotta moglie del frantoiano – capelli “al nero d’inferno” e due occhi contornati di rosso, residuo d’antico tracoma – tutte le sere mi regalava il pane caldo di forno acceso a sansa, insaporito con olio di prima spremitura e sale fino. Ero talmente in amicizia, che una domenica di metà agosto signora Baingia mi aveva invitato ad andare al mare in biroccio con tutta la sua famiglia e, non si sa? C’era pure Agostina. Mia madre, per l’occasione, sconciando velocemente un vecchio maglione celeste d’orbace mi aveva cucito un pantaloncino da mare e mi ci aveva mandato dopo avermi lavato ben bene i piedi. La giornata era assai bella, assolata e calda, e nelle vigne dai sarmenti già rossi nuvole di passeri ubriachi d’amore pizzicavano l’uva già matura, quasi pronta per la vendemmia. Un buon aroma di rosmarino, rosa selvatica e menta riempiva i polmoni. La cavalla baia – che si chiamava Gigia – aggiungeva profumo a profumo quando ogni tanto, al passo o al trotto, con estro consumato sollevava la coda per soddisfare le sue necessità. «Tuttu saruddu!», affermava saggiamente signor Proto seduto in cima al cassone, frusta in mano. Il mare era piatto e immobile da sembrare appiccicato alla spiaggia, liscio come olio giustappunto, e il mulinaio si sentiva come a casa sua. Sbrigliata Gigia, gli adulti avevano fatto una baracca con le stanghe del biroccio ed una vecchia tela a righe scure da materasso; avevano sistemato il mangiare all’interno, avvolgendo amorevolmente l’anguria con uno straccio umido per conservarla fresca. Signora Baingia si era fatta ricoprire di sabbia bollente perché: «Fazi be’ all’ossi reumatigghi». Io e Agostina c’eravamo gettati in mare giocando e gridando a squarciagola: lei mi afferrava il collo e mi affondava la testa nell’acqua per farmi bere ed io bevevo, contento di farla contenta. Anche i calzoncini da bagno bevevano acqua a litri e mi si allungavano fino ai piedi raccogliendo dal fondo sabbia a mucchi. Una vergogna! Io cercavo di tirarli su, Agostina ridacchiava ed io ero contento di farla ridere. A mezzogiorno avevamo mangiato in abbondanza e signor Proto: «Bevi che ti fa sangue, acchì sei in colore di chisgina!», mi diede un pochino del suo vino di proprietario, che mi piegò le gambe. Signora Baingia si era nuovamente fatta sotterrare sotto la sabbia, ferma ferma da sembrare morta; il marito, sempre accigliato e sonnacchioso scrutava il mare; io e Agostina c’eravamo sistemati dentro la baracca per riposare. Il posto era stretto e dovevamo restare sdraiati di fianco, uno di fronte all’altra. Avevo già visto al cinema della parrocchia situazioni simili, con Ivonne Sanson e Amedeo Nazzari che si guardavano negli occhi, viso a viso; poi lui le prendeva la mano, ed a quel punto si spezzava la pellicola. Immedesimandomi anch’io nella parte guardavo Agostina che mi scrutava con un sorrisetto beffardo; infine lei si addormentò ed io presi coraggio. Con il cuore in gola appoggiai delicatamente la mia mano sulla sua forte e ruvida di cloro e varechina: ma era la sua mano, quella della mia innamorata; a me sembrava liscia come seta. Mi mancava il cuore, ero pervaso da certe vampate che mai avevo sperimentato in vita mia. C’era uno sconquasso dentro di me che non si attenuava neanche pensando a mia madre, al parroco, alle figurine e a quando mi ero tagliato il dito con la lametta Gilè. Niente, il cervello era preso da quella novità fino ad allora sconosciuta e mai immaginata. Con gli occhi sbarrati guardavo Agostina, angelo dormiente, con una voglia di baciarla da non poter dire, da perderne i sensi. Dopo un po’, infatti, m’era venuto un bel capogiro ed ero svenuto. O forse mi ero addormentato anch’io, cotto dal vino di proprietario. Tornai alla realtà quando il sole già tramontava e tutti si preparavano per il rientro. Ero molto imbarazzato e frastornato, pantaloncini scendi-scendi ancora zuppi d’acqua e scarpe in mano – il perfetto ritratto dell’amante – dinanzi ad una Agostina spensierata che passandomi accanto mi aveva mollato una formidabile quanto inattesa tirata d’orecchi, e non in senso figurato. Con le sue mani di seta.

Al ritorno a casa mamma mi aveva sgridato perché ero arrossato come un melograno: «Non ti picchio perché sei gia bollito!»; ma io ero cotto anche di Agostina. Per una settimana ero rimasto come un arrosto morto, con una febbre da impacchi freddi in testa, sragionando e sognando il mio amore che mi baciava in fronte. Era invece mia madre che mi sfiorava con le labbra per controllare se stavo guarendo. Appena in piedi ero corso a cercare Agostina, ma lei non c’era più. Chiesi ad Umberto – il mio amico “di strada” un po’ più grandicello di me – se l’avesse vista e lui, che in quel momento giocava “a mamma” nella piazzetta con i noccioli delle albicocche: «Non l’hai saputo?» mi rispose con un sogghigno, «Se n’è andata perché aspetta un bambino».
«Aspetta chi, il fratello? Il figlio della sorella?»
«Che fratello e parente d’Egitto: qualcuno le ha fatto la festa.»
«E… sarebbe?»
«Sarebbe che ha la pancia
«E… sarebbe?»
Umberto assunse un’aria di sufficienza: «Sarebbe che ti devi svegliare. È incinta, capito? Aspettare bambino, aspettare bebè. Alla scalza!». Il cervello mi pulsava: «E cosa vuol dire, alla scalza?». Per un istante Umberto aveva perduto la sua sicurezza: «Vuol dire… scalza… senza marito». Ahia!
«E se… mettiamo, così per dire… tanto per parlare: e se gliel’ha fatto sapere l’Arcangelo Gabriele?»
«A chi, a Agostina? Ohiàa… Ma se così ti piace diciamo di sì. Gabriele di Sorso: ti va bene?»
Cooosa? Io ero nato a Sorso ma soltanto per caso. Mi veniva da piangere: «Non sarò stato io quel giorno al mare? Io… padre bambino di un bambino… e chi ci campa?».

Colto da un improvviso senso d’imminente catastrofe ero corso a genuflettermi da Fra’ Cesco alla Trinità, la chiesa vicina al Rosello. Gli avevo raccontato tutto e lui era scoppiato a ridere: «Vai figliolo» mi disse, «che i bambini non si fanno così. Però hai peccato ugualiter. Peccato di pensiero. Inosservanza del nono e decimo Comandamento! Nonus: non desiderare la donna d’altri. Decimus: non desiderare la roba altrui. Per penitenza dirai un Pater e tre Gloria per le Anime del Purgatorio e per le mie intenzioni. Ego te absolvo… Amen et Dominus tecum».

Ero andato via sereno, in pace con Dio e con le Anime del Purgatorio ma con un dubbio che mi ronzava in testa: cosa ne sapeva Fra’ Cesco che Agostina, e la roba di Agostina, erano altrui? E quali erano le intenzioni di Fra’ Cesco? Forse… poiché lui conosceva il latino… Certamente sapeva il fatto suo! Agostina non l’avrei mai più rivista e in ogni modo nel giro di un mese dalla gita ferragostana l’avevo dimenticata, aiutato probabilmente dallo spavento provato. Umberto nel frattempo si era premurato di spiegarmi, una buona volta, modalità e norme di attuazione per avere figli, a modo suo e con particolari che a momenti trovavo raccapriccianti, soprattutto all’idea di quanto avesse dovuto patire Agostina durante il concepimento. Per un dettaglio ci avevo preso: per fare figli bisognava essere in due. Per il resto ci rimasi male e non volli crederci; nel mio pensare d’adolescente non trovavo niente, in quelle enunciazioni, del sentimentalismo che mi pervadeva quando al cinema della parrocchia Ivonne e Amedeo si prendevano per mano, proprio nel punto in cui metodicamente si spezzava la pellicola. Ma cosa poteva esser successo subito dopo? Non ci avevo mai pensato: e se avesse avuto ragione Umberto?